Apro gli occhi e sono le sette, guardo il telefono e sono le otto e mezza. Dico, non è suonata la sveglia. A quel punto mi sveglio davvero. Avrò dormito cinque ore ma non mi sento stanca – in media me ne servono sette o più per non sembrare una protagonista di Twilight sotto la luce verde di Seattle.
Fuori, le montagne sono uscite dal buio nella solita maniera miracolosa, prima il nulla e poi il tutto: le vene azzurrine della roccia tra il verde dei prati, strane capre nere che pascolano sui crinali e alti pini filiformi con la chioma lucente.
Ci sono momenti in cui desidero ardentemente che avvenga un black out per rimanere esattamente lì, sulle montagne russe prima del salto, per un tempo indefinito, anche per sempre. Ma la vita senza corrente è difficile da immaginare, specialmente nel 2023, quando di futuri distopici ne abbiamo già ipotizzati a sufficienza.

Chies d’Alpago sembra uscito da una specie di manuale per streghe, un posto dove nelle stanze coi muri di pietra, nascoste dai vetri polverosi, vengono custodite vipere nell’alcol, animali imbalsamati, pozioni per far innamorare la gente. Non so con quale strano e oscuro intruglio il ciclismo ci abbia stregati ma sicuramente c’è di mezzo questo alone di magia che avvolge tutte le cose; una volta che la corsa arriva in un luogo, lo circuisce con la sua dose di estatica adrenalina e tu rimani lì, completamente fregato, sapendo che, in certi casi, il tuo cervello chiamerà il cuore e ci sarà la segreteria. Così fa questo sport, stacca i collegamenti mentre le connessioni restano anche se sono totalmente fuori dall’umana concezione.

Il rock garden è una discesa al bianco inferno del greto del fiume. Qui l’acqua scorre e ribolle tra le pietre quasi accecanti nel mezzogiorno di fuoco dove persino l’asfalto si scioglie come oscura lava lucente. Non c’è niente che allevia l’afa costante, così come nulla ti toglie la fatica di tenere il ritmo alto, mantenere la concentrazione per ricordarti il punto giusto dove attaccare. Non è del tutto vero che quando soffri non pensi a niente, forse sei più lucido che in milioni altri momenti.
Le signore sbirciano fuori dall’ombra dei loro antri dai quali esce il profumo del sapone da bucato: fuori il sudore cola a picco senza sosta ma l’azione corre sopra tutto. Quando giro lo sguardo, sulla parete di una casa vedo un murales con due cani – uno assomiglia a un lupo – che sembrano di nuovo spiriti guida usciti dai sogni, venuti a rassicurare sull’ordine delle cose che, nonostante tutto, prosegue senza intoppi, con la garanzia di protezione a vita dai tombini aperti che si nascondono tra l’erba alta.

Mentre scende il buio, le montagne sopra il lago diventano una sagoma viola sull’orizzonte blu dove un bambino si è divertito a mettere un solo, unico puntino bianco e luminoso. Annoto nuove visioni nella mia testa, nel grande libro dei sogni che si mescolano inesorabilmente alla realtà.
Il Libro dei Sogni è una sorta di autobiografia onirica di Jack Kerouac, pubblicata nel 1961, composta dagli svariati appunti che lo scrittore prendeva su un taccuino ogni mattina al risveglio. Qui annotava in modo più dettagliato possibile tutti i sogni che aveva vissuto durante la notte, dimostrando come essi si intersecassero inesorabilmente con la vita reale in tutti gli aspetti.